“Il corpo mistico” di Rosanna

La favola alchemica: reti, enigmi, trame

Disinganno (dettaglio)

Il gioco della “culla di spago” intrecciata tra lo spettatore e il fantasioso principe-mago pervadeva l’intimità di sguardi che tenevano avvinto il giovane scolaro alla zelante e prosperosa maestra di Grammatica nell’allegoria dell’Educazione. La stessa amorevole intesa con la quale il genietto rassicurava Antonio mentre prendeva a liberarlo dai nodi della rete.
Questo, il mondo intessuto delle infinite invisibili trame della favola alchemica, congeniale ai voli di fantasia di Rosanna che aveva in serbo la sua ultima magia per aprire i sigilli dei libri ermetici del Sansevero. Disseminati dappertutto nel teatro di marmo della Cappella, essi erano sotto gli occhi di tutti, sotto i piedi del Disinganno, nelle mani del giovinetto dell’Educazione ed in quelle del putto dello Zelo. A dire il vero, altro che un puttino, un vero, già agguerrito Ercole infante, tra grovigli di serpi che guizzavano via terrorizzate dal fuoco, ai piedi del sacerdote armato di sferza.
Tra i volumi accartocciati nei compiaciuti spasmi barocchi del Queirolo, solo uno era lasciato aperto allo sguardo del pubblico. Tre volte segnato dai versetti delle antiche Scritture che dovevano far luce sul significato della scena del disinganno: “le tue catene romperò; le catene delle tenebre e della lunga notte, perché non perisca assieme a questo mondo1

Ma a Rosanna questo non bastava. Non diversamente da come aveva fatto nella sua precedente visita alle Gallerie della settecentesca Accademia di Belle Arti a Venezia, di fronte all’enigmatico incunabolo del quadro di Lorenzo Lotto raffigurante il gentiluomo con lucertola, scrutò intimamente dentro i libri di marmo del Sansevero, al punto che non ebbero più segreti per lei.

Arrivava a dire con sconcertante convinzione, che sarebbe stata in grado di intendere la favola arcana raccontata dalle virtù di marmo, se solo avesse riacquistato dal fondo della memoria, lo sguardo semplice di una bambina. Voleva intendere la bambina che per la prima volta sussultò anni addietro nella sua visita a Napoli, davanti al Cecco redivivo balzato dalla sua cassa, con la spada in pugno, e a quegli inquietanti putti che scoperchiavano il Santo Sepolcro sotto l’altare della Cappella.
Sembrava in certi momenti di inspiegabile eccitazione, veramente convinta di godere del privilegio di una speciale complicità col principe-mago; di intendere meglio di chiunque le apparizioni, le fantasmagorie dissimulate dietro i suoi inesauribili colpi di teatro, spesso fraintesi come ostentazioni, eccentricità narcisistiche di vuota erudizione.

Rosanna:
È sorprendente! I secoli che separano le allegorie della Cappella dalle sculture ad esempio, del pulpito del Duomo di Pisa, non offuscavano affatto nel ‘700, la comprensione del linguaggio dei simboli dell’arte. Le stesse trovano invece, impreparato il pubblico di oggi e non possono più comunicare l’intenzione originaria dell’artista. Anzi, avendo smarrita la chiave per interpretare il loro significato simbolico, ci appaiono spesso ridondanti, appesantite di oscuri orpelli. Eppure passano più secoli tra Nicola Pisano e il Corradini o il Sanmartino, di quanti ne intercorrono tra noi e il principe.
Le figure iconologiche codificate da Cesare Ripa dovettero essere in cima ai suoi pensieri. Mi sembra di vederlo mentre commissiona le Virtù sui sepolcri degli avi, spiegandole con tali puntigliosi dettagli da rischiare di scoraggiare, soffocare la libera inventiva dei suoi scultori.
Non mi stupirei a riguardo, nel saperlo maniacalmente assillato dalla più scrupolosa osservanza. Scommetterei arrivasse a pretendere che essi fissassero indelebilmente nella mente quelle figure, a modello inderogabile per le loro statue, prosciugando inevitabilmente, ogni loro autonoma estrosità.

Tra le fonti d’ispirazione delle complesse allegorie del di Sangro, il Ripa occupa un posto fondamentale. Il più tradizionale codice di rappresentazione allegorica, il più classico trattato di rappresentazioni iconologiche: l’Iconologia di Cesare Ripa, fu pubblicato per la prima volta a Roma alla fine del Cinquecento (1593). Ristampato poi, a Perugia nel 1764 in un’edizione accresciuta, curata dall’abate Cesare Orlandi, fu finanziata dallo stesso Raimondo di Sangro.
È proprio in questa edizione che compaiono le inedite raffigurazioni curate dallo Zaratino Castellina, che gettano luce su oscuri dettagli quali l’astruso simbolismo del suo misterioso monosandalos.

Certamente non doveva sfuggire a Rosanna la rigorosa corrispondenza dell’allegoria del Decoro alle prescrizioni del trattato. Sarebbe bastato accostare i due modelli che ogni tessera del puzzle sarebbe tornata a suo posto, tutto sarebbe apparso perfettamente sovrapponibile. Così il motto: Sic floret decoro decus. Così la pelle di leone e la presunta misteriosa, stravagante, calzatura. Aveva omesso magari quel dettaglio della pietra cubica nella mano destra sormontato dalla croce: l’emblema di Mercurio. Beh, figuriamoci mettere sfacciatamente all’ingresso un simbolo così discutibile, dandosi in pasto ai suoi detrattori. Un vero autogol.
Ma allora, perché Rosanna si ostinava ad addensare tutto questo alone di mistero attorno al suo cenerentolo? Una sfacciata panzana, cos’altro? L’ennesima bizzarria montata ad arte, giusto per confonderci le idee? E la misteriosa irruzione di un Dioniso pagano tra le amene virtù di marmo, lì tranquillamente al fianco dell’Amor divino…? Ipotesi, nient’altro che ipotesi prive di fondamento?
Ancora una volta giocava di fantasia fingendo una lucida attenzione al reale significato delle cose? La verità è che Rosanna non aveva mai smesso il suo viaggio in sogno.
Rinchiusa nel tempio del sogno ineffebabile del principe, rincorreva invece, i fantasmi complici dell’orgia dei suoi propri viaggi onirici da bambina, dentro un teatro di irresistibile suggestione. Chiamava a raccolta nel suo inesausto carosello di visionarie evocazioni, l’intera corte degli spiritelli dei quattro elementi che popolano le pagine del Conte di Gabalì di Montfaucon de Villars e quelle del Riccio rapito di Alexander Pope: folletti, silfi, ninfe, gnomi che si confondono agli uomini e agli oggetti della vita quotidiana animandola di una vita magica. Tutti i protagonisti delle favole eterne come il Flauto magico: Papageno, il principe Tamino. Tutto un mondo fatto d’aria della stessa sostanza dei sogni che sarebbe risultato di sicuro, grato allo Shakespeare comico. Né avrebbe mai lasciato fuori della sua favola alchemica lo stesso Prospero dei libri magici col suo fedelissimo Ariel, richiamata dall’isola shakespeariana.

Reti, enigmi, trame

la salamandra

Rosanna: C’è chi giura di aver scovato nella fitta vegetazione di cespugli che il Celebrano seminò tra i sassi del Golgota sull’altar maggiore, una salamandra. Pensai all’autore di quella non meno spettacolare cappella rococò nel Castello di Castelbuono, giù in Sicilia. A quelle sculture in particolare, firmate con rara eccentricità, in chiave di rebus, con l’immagine di una lucertolina mimetizzata in qualche cantuccio della composizione. Come si poteva vedere nell'Allegoria della Fortezza nell'oratorio del rosario in S.Domenico oppure nel peduccio della statua della beata Caterina nella chiesa di S.Agostino. L'artista amava giocare con il suo cognome: Serpotta, concretizzando l'idioma dialettale "sirpuzza", che in Sicilia identifica la lucertola e non il serpente <2.

la botola

Sulla mensa dell’altar maggiore, ai piedi del Golgota trasmutato nel monte della vittoria, era il Volto santo, splendente come un sole d’oro rivelato nelle pieghe della Veronica3, posta a custodia del mistico calice nel ciborio.

Inseguendo gli spiritelli della sua favola, Rosanna confida i sogni dell’infanzia: Immediatamente sotto la mensola si apriva la “botola”, gelosamente occultata dentro il Santo Sepolcro. Segnava il confine tra i due mondi. L’impresa di portarsi nel cuore del labirinto del Sansevero, calandosi giù per quel varco, non sarebbe stata possibile senza l’aiuto dei genietti alati che si adoperavano a sollevare la lastra di marmo, tra i due grandi angeli trasudanti una miracolosa rugiada. Da sempre, sono proprio le angeliche guide a scortare quanti come l’intrepido principe e il suo fedele Papageno nel Flauto magico, ambiscono a spingersi oltre la soglia e intraprendere il loro difficile percorso iniziatico di perfezionamento verso nobili passioni e la conoscenza vera dispensata da Iside.

Ai nostri angeli se ne sarebbe affiancato un altro: il bambino con la corona e la fiammella sul capo, che ancora indugia nel gioco della trottola, imprimendo col suo scettro principesco, vorticose piroette al mappamondo.
E ancora un altro.
Nel gioco dei più inattesi travestimenti, ecco infatti, il nostro traghettatore, l’uomo della rete, venuto ad assicurare alla bambina, la piccola Rosanna, la giusta guida nel transito tra i due regni. Oltre i labirinti che confondono gli uomini, oltre le tenebre che irretiscono le loro menti.
Rosanna: Fu da quella botola che il bambino col suo magico scettro e la corona di fiamma, condusse per mano Antonio verso la destinazione ultima del viaggio nella regione del fuoco abitata dalle “oneste e ritenute salamandre”.
Attraversarono la strozzatura che divide gli emisferi del tempo, approfittando di un’improvvisa smagliatura nella rete labirintica tesa sul pavimento del tempio del Sansevero.
Non giurerei che la memoria riesca a trattenere interamente l’esperienza di quel transito. L’arte della memoria assomiglia al viaggio intrapreso dall’alchimista.
Le cose che si rivelano entrando nel Tempio della Verità hanno il sapore del sogno, ne ricordano l’ebbrezza e il languore; ma fuori del sogno, tutto è lingua incomprensibile. Come il mattino dissipa il mistero del viaggio notturno, così il semplice balenare di un’emozione basta a far piombare fatalmente, un nuovo impenetrabile velo, precludendo l’ultimo spiraglio sulle inaspettate illuminazioni che arridono al sognatore.

NOTE
  1. L’iscrizione scolpita sul libro aperto del Disinganno sintetizza tre passi del Vecchio e Nuovo Testamento: vincula tua / disrumpam(Nah., cap 1, v. 13) / vincula / tenebrarum / et longae noctis / quibus es compenditus (Sap., cap. XVII, v. 2) / ut non cum / hoc mundo / damneris (1 Cor., cap. XI, v. 32)
  2. la firma di Serpotta La lucertola non è comunque la sola firma dell'artista. E' infatti possibile rintracciare nella conchiglia, riprodotta ad esempio sugli abiti di un fanciullo del gruppo di Ospitalità nell'Oratorio di S.Lorenzo a Palermo, l'attributo di S.Giacomo, e quindi dell'artista Giacomo. Sempre nella chiesa di S.Agostino, sulla figura di un angelo sulla destra dell'ingresso è possibile infine scorgere l'unica firma autografa che si conosca dell'artista.
  3. Fulcanelli sottolinea come nel linguaggio alchemico, l’etimo parola Veronica derivi correttamente dal greco: Bερενίκη “che procura la vittoria”. Mentre la tradizione popolare già dal Medioevo ne collega il significato con le parole "vera icona" (vera immagine), in relazione al noto episodio di santa Veronica che avrebbe ritrovato l’immagine del volto di Gesù nel panno di lino usato per asciugarlo durante la via crucis.

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